Archive for ‘Uncategorized’

settembre 6, 2024

Grazie Claudio Rocchi

Claudio Rocchi

Articolo pubblicato il 18 giugno 2013

Mi dispiace moltissimo, sono particolarmente turbata da questa morte, le sue poesie e la sua musica mi appartengono e le ho sempre ascoltate e proposte a chi non lo conosceva.

Claudio Rocchi aveva la forza della sincerità ma sapeva farti sognare con le sue canzoni che sembravano delle favole. La realtà non esiste ma c’è sempre una speranza, delle volte, anche noi torniamo indietro, comprendiamo e cambiamo vita. La bellezza dei suoi brani risiede a mio avviso proprio nella loro uniformità di vibrazioni.

C’è una canzone del 1974 inserita nell’Album Essenza: È per te, dedicata alla droga che al di là delle solite ispirate allucinazioni di chi voleva dire…anch’io mi drogo e sono, perciò un artista, è un invito affinché le energie psichedeliche possano essere sostituite da forza, senso e volontà per circolare fino al cuore. Questa è concretezza!

Tutte le altre canzoni costituiscono esposizioni poetiche presentate in molti concerti che diventavano fondamentali per chi amava Rocchi. Avrei preferito senza ogni ragionevole dubbio fare una recensione ma di fronte alla morte di un grande poeta m’inchino.

Claudio non è mai stato commerciale ma le sue canzoni arrivavano sempre dirette perché semplici. Gli strumenti usati nei suoi concerti erano chitarra acustica e pianoforte, le percussioni per imprimere il ritmo e spesso il sitar.

Per i nostri giorni e per le nostre coscienze è importante che rimanga la conoscenza di questo artista e spero che questo mio semplice pensiero per Rocchi insieme a tutte le altre recensioni siano aperti ad un colloquio tra noi sulle basi di documenti, notizie, dischi, libri e ricordi.

La realtà non esiste

Quando stai mangiando una mela tu e la mela siete parti di Dio,

Quando pensi a Dio sei una parte di ogni parte e niente è fuori da tutto

Quando vivi tu sei un centro di ruota e i tuoi raggi sono raggi di vita;

puoi girare solo intorno al tuo perno o puoi scegliere di correre e andare

Quando dormi tu sei come una stella e il respiro è come fuori dal tempo;

Quando ridi è come il sole sull’acqua, sai che farne della vita che hai

Quando ami tu ridoni al tuo corpo quel che manca per riempire un abbraccio,

Quando corri sai essere lepre e lumaca se hai deciso di arrivare o restare

Quando pensi stai creando qualcosa, illusione è di chiamarla illusione,

Quando chiedi tu hai bisogno di dare, quando hai dato hai realizzato l’amore.

Quando gridi la realtà non esiste hai deciso di essere Dio e di creare.

Quando chiami tutto questo reale hai trovato tutto dentro ogni cosa

Autore: Gloria Berloso

6 settembre 2024

luglio 25, 2024

John Mayall

luglio 24, 2024

JOHN MAYALL – Room to Move

Ci sono alcuni nomi che sono sinonimi del boom del blues britannico degli anni ’60. Abbiamo tutti sentito parlare delle band che hanno portato la musica alla ribalta, i Rolling Stones, gli Yardbirds, gli Animals, ed altri, ma prima ancora che uno di questi ragazzi iniziasse, c’erano musicisti blues dedicati che si sgobbavano nei club per chiunque volesse ascoltare. Alcuni di loro, Alexis Korner, Cyril Davies, Graham Bond, erano noti principalmente al pubblico londinese devoto e a coloro che in seguito studiarono le radici della musica.

E poi c’è John Mayall.

Nato il 29 novembre 1933, Mayall si innamorò del blues e del jazz molto presto nella sua vita, e già suonava blues in pubblico alla fine degli anni ’50 e all’inizio degli anni ’60. Sotto contratto con la Decca Records, il cantautore/chitarrista/tastierista e armonicista pubblicò il suo album di debutto, John Mayall Plays John Mayall, nel 1965, ma fu solo quando Mayall assunse un giovane chitarrista di nome Eric Clapton dagli Yardbirds che la sua band, i Bluesbreakers (a volte scritti Blues Breakers), iniziò a farsi notare su larga scala. Con John McVie al basso e Hughie Flint alla batteria, l’album del 1966 Blues Breakers con Eric Clapton attirò anche l’attenzione dei fan americani che avevano scoperto il blues tramite quegli altri musicisti britannici. Ed è proprio questo sensazionale gruppo che attirò la mia attenzione fin da bambina. Credo di aver ascoltato il disco nel decennio tra il ’66 e il ’76 migliaia di volte. Verso la fine degli anni Sessanta giurai a me stessa di conoscere Eric Clapton ma questo desiderio non si è mai avverato.

Negli anni successivi, Mayall fu una star in America e nel suo paese d’origine: i suoi tour andarono sold out e i suoi dischi, tra cui classici come Blues From Laurel Canyon e The Turning Point, passarono in radio. Mayall non divenne mai una superstar da arena, ma le sue band ne generarono molte. Oltre a Clapton, ospitò musicisti di livello superiore come Peter Green e Mick Fleetwood (che avrebbero entrambi fondato i Fleetwood Mac con McVie), Mick Taylor (in seguito degli Stones), Harvey Mandel, Jack Bruce, Aynsley Dunbar e molti altri.

Cambiando costantemente la formazione e grazie alla sua insaziabile voglia di viaggiare per la musica, Mayall è stato in grado di continuare a evolversi nel corso degli anni.

L’album Blues from Laurel Canyon del 1968 di Mayall segnò un trasferimento definitivo negli Stati Uniti e un cambio di direzione. Sciolse i Bluesbreakers e lavorò con due chitarre e una batteria.

L’anno seguente pubblicò The Turning Point, probabilmente la sua uscita di maggior successo, con una formazione acustica atipica di quattro elementi, tra cui Mark e Almond. Room to Move, una canzone di quell’album, fu una delle preferite del pubblico nella successiva carriera di Mayall.

Room To Move
May seem peculiar / How I think o’ you If you want me darlin’ / Here’s what you must do. You gotta free me / Cuz I can’t give the best / Unless I got room to move. If you want me darlin’ / Take me how you can I’ll be circulating, Cuz that’s the way / I am. You gotta free me / Cuz I can’t give the best Unless /

I got room to move

John Mayall è morto nella sua casa in California il 22 luglio 2024, ha dedicato tutta la vita a ciò che credeva di più: la Musica Blues.

Autore articolo: Gloria Berloso

luglio 4, 2024

Recensione libro

giugno 17, 2024

Anohni e The Johnsons a Ravenna hanno infuocato il pubblico. Concerto unico, bellissimo, da brividi.

(Recensione di Gloria Berloso)

Per la prima volta in un decennio, ANOHNI presenta una serie di concerti con i Johnsons, attingendo dal suo nuovo album My Back Was A Bridge For You To Cross e da canzoni del suo repertorio.

ANOHNI a Ravenna sabato 15 giugno, unico concerto in Italia, era affiancata da nove musicisti, tra cui Julia Kent (violoncello), Maxim Moston (violino), Mazz Swift (violino), Doug Wieselman (polistrumentista), Leo Abrahams (chitarrista), Gael Rakotondrabe (pianoforte), Sam Dixon (basso), Chris Vatalaro (batteria, voce), Jimmy Hogarth (chitarrista/produttore) e Johanna Constantine (danza).

La sua voce unica, delicata ma anche arrabbiata quando si deprime per le promesse non mantenute per i diritti civili viene dolcemente accompagnata dai suoni a volte deboli, a volte profondi, a volte incisivi e dai colori dell’arcobaleno. Una scenografia veramente molto bella. Con ‘It Must Change’, Anohni dichiara una protesta profondamente sentita con obiettivi tra il personale e il politico. È lei la voce senza tempo, emozionante, attuale con quella sofferenza che racconta il nostro mondo, che spera che il bigottismo imperante finisca. È lei la voce coraggiosa che parla e rappresenta quella parte di umanità incompresa. È lei con la voce vibrante che spiega la “trasformazione”.

Con la canzone “Scapegoat”, co-scritta da ANOHNI e da Jimmy Hogarth, articola la crisi vissuta da coloro che sono coinvolti in cicli di persecuzione, intrecciando le intenzioni di un colpevole con una voce onnisciente, forse quella della Natura stessa. Il testo è diretto: “Sei così uccidibile .. scomparibile // Questo non abbiamo bisogno di proteggerlo // Questo è un omaggio per le nostre armi // Porta questo in un posto // È meglio che tu faccia a modo tuo // Porta tutto il mio odio nel tuo corpo”. ANOHNI si riferisce alternativamente a vittime di violenza sessuale, rapimento, omicidio, violenza con armi da fuoco, tortura e bullismo. L’autrice afferma che alcuni corpi umani sono considerati sacrificabili dalle nostre famiglie, comunità e società. Nella strofa finale, ANOHNI afferma: “Non importa chi sei, o da dove vieni // Non importa cosa hai da dare, o perché vuoi vivere // Sei il mio capro espiatorio // Non è personale”. Un assolo di chitarra incalzante comanda il finale della canzone. Con l’affermazione “It’s not personal”, ANOHNI offre che la specificità interiore delle vittime del capro espiatorio esiste al di là dell’intuizione e della portata di qualsiasi autore. In contrasto con gli scenari crudeli descritti nel testo, appare un filmato che ritrae un mondo femminile in cui una giovane donna immagina di vivere una vita gioiosa, libera dalla paura.

Ora che me ne sono quasi andato

Un frammento di ghiaccio sulla mia lingua

Nella notte del giorno

Ha un sapore così buono, è stato così giusto

Per la prima volta nella mia vita

Il ghiaccio freddo sulla mia lingua

Si dirige verso l’oblio

Come è dolce la vista, la vista del portale

Sulla mia strada verso il nero e il blu

Non potevo crederci fino a stasera

Questo luogo fatto di luce

Mi sono fatto una casa

Non so cosa sia sbagliato

Non so cosa sia giusto

Il mio posto è qui come quello degli animali

E il sapore dell’acqua sulla mia lingua

Era fresco e buono

Non l’ho mai saputo prima

Ti amo molto di più

Photo by Gloria Berloso

Ravenna, 15 giugno 2024

Pala De Andrè

Concerto ANOHNI

Maggio 29, 2024

Là, ma solo per caso – PHIL OCHS

Mostrami la prigione, mostrami il carcere,
mostrami il prigioniero la cui vita si è esaurita invano
ed io ti mostrerò, ragazzo mio,
con molte ragioni, perché
là, ma solo per caso, potremmo andarci tu ed io.
Mostrami il vicolo, mostrami il treno,
mostrami il barbone che dorme fuori sotto la pioggia
ed io ti mostrerò, ragazzo mio,
con molte ragioni, perché
là, ma solo per caso, potremmo andarci tu ed io.
Mostrami il whiskey che macchia il pavimento,
mostrami l’ubriacone che barcolla fuori dalla porta
ed io ti mostrerò, ragazzo mio,
con molte ragioni, perché
là, ma solo per caso, potremmo andarci tu ed io.
Mostrami il luogo dove dovevano cadere le bombe,
mostrami le macerie degli edifici di un tempo così alti
ed io ti mostrerò, ragazzo mio,
con molte ragioni, perché
là, ma solo per caso, potremmo andarci tu ed io.

Phil Ochs: There but for Fortune è un documentario musicale che ritrae i tumultuosi anni Sessanta e l’improbabile eroe folk e cantante di protesta Phil Ochs, che ha incarnato quell’epoca. Nel corso di una fulminante carriera musicale che ha attraversato due decenni, Ochs ha cercato le luci della fama e della giustizia sociale. Questa contraddizione finì per lacerare Ochs.

Dall’idealismo giovanile al fatalismo, l’arco della vita di Phil Ochs è stato parallelo a quello della complessità dell’America degli anni Sessanta, quando la guerra del Vietnam e l’invasione della Baia dei Porci diedero vita al movimento contro la guerra, un’epoca definita dal discorso “I Have a Dream” di Martin Luther King Jr, dall’assassinio di John F. Kennedy e dai primi passi di Neil Armstrong sulla luna. Ochs ha fatto parte della rivoluzione controculturale americana e questo film rivela la rabbia, la satira e la giusta indignazione che hanno guidato la sua musica e che lo hanno anche portato alla disperazione.

Commenti e interviste con Joan Baez, Tom Hayden, Pete Seeger, Sean Penn, Peter Yarrow, Christopher Hitchens, Ed Sanders e molti altri, insieme a filmati di performance di Ochs, danno vita a questo documentario. Per ulteriori informazioni sulla vita e i tempi di Phil Ochs, visitare il sito web del film.

In una notte della metà degli anni Settanta, poco prima che Phil Ochs decidesse di impiccarsi, aveva bevuto e chiacchierato mestamente a New York con Pete Seeger, che doveva partire per prendere l’ultimo treno per la sua casa lontano sull’Hudson. Pete sapeva che Phil era completamente depresso, al limite del bipolarismo. Per decenni Pete si portò dietro quell’ultima notte con Phil, sentendo che forse avrebbe dovuto rimanere a New York per la notte.

Il 28 maggio 1976 – quarantotto anni fa – si tenne un concerto commemorativo per Phil Ochs al Felt Forum di New York. Alcuni degli amici che hanno partecipato sono stati Pete Seeger, Odetta, Peter Yarrow, Oscar Brand, Fred Hellerman, Ramblin’ Jack Elliott, Tim Hardin, Tom Rush, Patrick Sky, Dave Van Ronk, Len Chandler, Jim Glover, Jean Ray e Bob Gibson.

Questo è il video di David Blue che canta “Cupid’s Arrow”, una canzone che ha scritto come tributo a Phil Ochs, al concerto commemorativo al Felt Forum di New York nel 1976, un mese dopo la morte di Phil.

David Blue (Stuart David Cohen, 18 febbraio 1941 – 2 dicembre 1982) è stato un cantautore e attore americano di musica folk.

Blue divenne parte integrante della scena musicale folk del Greenwich Village di New York, che comprendeva Bob Dylan, Phil Ochs, Dave Van Ronk, Tom Paxton, Bob Neuwirth ed Eric Andersen. Blue è noto soprattutto per aver scritto la canzone “Outlaw Man” per gli Eagles, inclusa nell’album Desperado del 1973. La versione originale di Blue di “Outlaw Man” è stata la traccia principale del suo album Nice Baby and the Angel, ripubblicato su CD, con l’intero catalogo di David Blue, nel 2007 da Wounded Bird Records.

Blue si unì alla Rolling Thunder Revue di Dylan nel 1975 e apparve in Renaldo e Clara, il film del 1978 girato durante quel tour. Blue recitò in altri film, tra cui L’amico americano (1977), diretto da Wim Wenders, Il calvario di Patty Hearst (un film per la TV del 1979) e Human Highway (1982) di Neil Young. Human Highway fu presentato in anteprima nel 1983 dopo la morte di Blue. Blue ha anche recitato sul palco nella commedia American Days di Stephen Poliakoff al Manhattan Theatre Club di New York, nel dicembre 1980, per la regia di Jacques Levy.

Blue morì di infarto nel dicembre 1982, all’età di 41 anni, mentre faceva jogging nel Washington Square Park di New York.

Autore testi: Gloria Berloso

Leggi anche il libro LA CULTURA MUSICALE

Maggio 21, 2024

ANOHNI a Ravenna il 15 giugno con il suo nuovo disco My Back Was A Bridge For You To Cross

ANOHNI è tornata con un nuovo album, My Back Was A Bridge For You To Cross, e il primo singolo estratto è It Must Change.

È il suo primo album dopo Hopelessness del 2016 e lei lo descrive come minuzioso, gioioso, intimo e come una ridenominazione della sua risposta al mondo così come lo vede.

“Alcune di queste canzoni rispondono alle preoccupazioni globali e ambientali espresse per la prima volta nella musica popolare più di 50 anni fa”.

Nel 2022, ANOHNI ha iniziato a lavorare con il noto produttore soul Jimmy Hogarth, che ha lavorato con Amy Winehouse, Duffy e Tina Turner. Avendo sempre composto e prodotto i precedenti dischi dei Johnsons, questo tipo di collaborazione era una novità per ANOHNI.

Così ha portato dei quaderni pieni di idee per i testi e insieme hanno abbozzato una serie di demo con Hogarth alla chitarra e ANOHNI al pianoforte. Hogarth ha poi messo insieme una band in studio – tra cui Leo Abrahams, Chris Vatalaro, Sam Dixon e l’arrangiatore di archi Rob Moose – per registrare l’album completo. La chitarra intuitiva di Hogarth guida l’ascoltatore attraverso dieci canzoni, toccando elementi di soul americano, folk britannico e musica sperimentale.

L’album esprime una visione del mondo che si trasforma in un’ampia gamma di argomenti. Attraverso una lente personale, ANOHNI affronta la perdita di persone care, la disuguaglianza, l’alienazione, l’accettazione, la crudeltà, l’ecocidio, la devastazione causata dalle teologie abramitiche, il femminismo del futuro e la possibilità di trasformare i nostri modi di pensare, le nostre idee spirituali, le nostre strutture sociali e le nostre relazioni con il resto della natura.

In It Must Change, ANOHNI descrive i sistemi al collasso con una nota di compassione per l’umanità. Il video del singolo, interpretato dall’attivista britannica per la giustizia sociale Munroe Bergdorf, è diretto da Iain Forsyth e Jane Pollard. Negli ultimi dieci anni, Munroe Bergdorf ha difeso le persone transgender e ha lottato contro il razzismo istituzionale in una società che spesso nega l’esistenza di entrambi. Come donna transessuale nera e queer, è abituata ad affrontare il plotone d’esecuzione; il suo lavoro consiste nel chiedere agli altri di chiedersi il perché di questa situazione. Di conseguenza, raramente incontra l’ambivalenza. Ha molti alleati ma altrettanti detrattori, che non temono di usare Bergdorf come, dice lei, un “bersaglio da frustare”. Questa parte rumorosa e marginale della società – che comprende persone di tutto lo spettro politico che sostengono un femminismo che esclude attivamente le persone trans – sembra pronta a denunciare ciò per cui lei combatte, ignorando i danni umani collaterali che la loro retorica crea.

Un ritratto della leggendaria attivista per i diritti umani Marsha P. Johnson, scattato da Alvin Baltrop negli anni Settanta, compare sulla copertina di My Back Was a Bridge For You To Cross, a testimonianza di un rapporto venticinquennale con la memoria della Johnson che ANOHNI ha tenuto in considerazione nella presentazione del proprio lavoro. 

Marsha P. Johnson è stata una delle figure più importanti del movimento per i diritti dei gay degli anni ’60 e ’70 a New York City. Sempre sorridente, Johnson è stato un importante sostenitore dei giovani LGBTQ+ senzatetto, di quelli affetti da HIV e AIDS e dei diritti dei gay e dei transgender.

ANOHNI dice che dal suo ultimo disco è cambiata, passando da una persona che ha il compito di sfidare la negazione globale a un’artista che cerca di sostenere gli altri in prima linea.

“Voglio che il disco sia utile. Con HOPELESSNESS ho imparato che posso fornire una colonna sonora che possa fortificare le persone nel loro lavoro, nel loro attivismo, nei loro sogni e nelle loro decisioni. Posso cantare di una consapevolezza che fa sentire gli altri meno soli, persone per le quali la franca articolazione di questi tempi spaventosi non è fonte di disagio, ma motivo di identificazione e sollievo”.

My Back Was A Bridge For You To Cross contiene dieci canzoni.

Ecco la tracklist:
It Must Change
Go Ahead
Sliver Of Ice
Can’t
Scapegoat
It’s My Fault
Rest
There Wasn’t Enough
Why Am I Alive Now?
You Be Free

ANOHNI

Gloria Berloso

Autore

ilblogfolk.wordpress

Maggio 16, 2024

Dai Kingfish ai New Riders of the Purple Sage con Skip Battin

Ci sono storie che rimangono impresse nella nostra mente. Ricky Mantoan mi ha insegnato una parte di quella musica che conoscevo poco e che con il suo Branco Selvaggio ha trasmesso ad una buona parte di alcune generazioni che hanno vissuto gli anni Settanta. Nella vita di questi ragazzi era entrato a far parte il nostro amato Skip Battin e di seguito, nella mia attraverso i racconti di Ricky e soprattutto la loro musica. Oggi ho messo sul giradischi l’Album “Brujo” dei New Riders & the Purple Sage, un disco di 50 anni fa.

Nell’estate del 1969, John Dawson voleva presentare le sue canzoni e Jerry Garcia voleva fare pratica con la sua nuova Pedal Steel Guitar. All’inizio i due suonano nelle caffetterie e in piccoli club, e la musica che producono diventa il nucleo di una band: i New Riders of the Purple Sage.

Nello stesso anno, David Nelson, esperto di chitarra country e rock, si unisce al gruppo come chitarra solista elettrica. A completare la sezione ritmica in quei primi giorni c’erano il batterista dei Grateful Dead, Mickey Hart e l’ingegnere Bob Matthews al basso, che fu poi sostituito da Phil Lesh. Nel 1970, Dave Torbert subentra al basso e i New Riders suonano ogni volta che ne hanno la possibilità. Ben presto, i club fumosi di tutta l’area della baia di San Francisco si riempiono di folle urlanti e scalpitanti, mentre la loro musica si fa più serrata e dinamica. Cominciarono a fare numerose tournée con i Dead e, nel dicembre del 1970, Spencer Dryden, che in precedenza aveva dato prova del suo impeccabile stile batteristico con i Jefferson Airplane, entrò a far parte della batteria.

All’inizio del 1974 il bassista Dave Torbert, desideroso di seguire una direzione più rock and roll, lascia i New Riders per formare i Kingfish con i vecchi amici Matthew Kelly e Bob Weir. Skip Battin, ex membro dei Byrds, si unisce al gruppo al basso, mantenendo il solido programma di tournée che era diventato uno dei marchi di fabbrica della band. Nell’agosto del 1974, i New Riders tennero un concerto di ringraziamento gratuito a Central Park un martedì pomeriggio per 50.000 fan di New York. Il loro sesto album, intitolato Brujo, fu pubblicato nell’ottobre del 1974 e vide il loro suono registrato diventare più nitido, con armonie delicate e canzoni più originali.

Alla ricerca di orizzonti musicali più ampi, nel 1975 i New Riders si uniscono al produttore Bob Johnston, noto per il suo lavoro con Bob Dylan. Lasciandosi trasportare da Johnston su un terreno inesplorato, il risultato Oh, What A Mighty Time vede la band collaborare con Sly Stone e una schiera di coriste. Mighty Time contiene anche la chitarra elettrica di Jerry Garcia in “Take A Letter Maria”. Proprio in questo periodo il mondo della musica sta entrando in un’altra epoca e i New Riders chiudono il loro rapporto con la Columbia Records. La successiva pubblicazione del Best of the New Riders of the Purple Sage, con la sua famigerata copertina, soddisfa i loro obblighi nei confronti della Columbia e la band firma con la MCA Records nel 1976.

New Riders, la prima pubblicazione della band per la MCA, è composto per lo più da materiale di cover ed è l’ultimo album in cui compare Skip Battin, che ha lasciato il gruppo per unirsi ai suoi compagni dei Flying Burrito Brothers. Ancora una volta, estratto dalla scuderia di bassisti dei Byrds/Roger McGuinn, Stephen Love, anch’egli proveniente dalla Stone Canyon Band di Rick Nelson, si unì alla band e diede una rinnovata energia agli spettacoli dal vivo. Il talento di Love nella scrittura delle canzoni contribuisce in modo determinante a “Who Are Those Guys?”, pubblicato nella primavera del 1977. A questo punto, Spencer Dryden abbandona le bacchette della batteria per iniziare a gestire la band. Patrick Shanahan, un altro ex allievo della Stone Canyon Band, si inserisce subito alla batteria ed è presente in Marin County Line, il disco uscito alla fine del 1977 che pone fine al sodalizio della band con la MCA.

Da questo momento in poi l’organico dei New Riders subirà molti altri cambiamenti. Buddy Cage e Stephen Love se ne andarono nel 1978 per unirsi alla breve vita dei San Francisco All Stars con John Cippollina. Skip Battin e i suoi amici Burrito Brother, Gib Gilbeau e Sneaky Pete Kleinow, vennero quindi inseriti in quello che sembrava un mix dinamico. Ma dopo un breve giro nel Nord-Est, sono usciti con la stessa rapidità con cui sono entrati. Bobby Black dei Commander Cody’s Lost Planet Airmen subentra alla pedal steel e un altro allievo di Rick Nelson, Allen Kemp, al basso. Cage rientrerà nella band nel 1980 e il gruppo pubblicherà il suo ultimo disco per la A&M con Feelin’ Alright.

Gli anni di gavetta e la mancanza di attenzione da parte delle grandi case discografiche portano Nelson e Cage a prendersi una pausa nel 1982. Dawson continuò a portare avanti la fiaccola dei New Riders per tutti gli anni Ottanta e i primi anni Novanta, con l’aiuto di Rusty Gauthier, Gary Vogensen, Bill Laymon e alcuni altri musicisti della Bay Area.

I New Riders of the Purple Sage hanno ricevuto un premio alla carriera dalla rivista High Times in occasione dei Doobie Awards del settembre 2002 e hanno eseguito un breve set che comprendeva “Loneseome L.A.”

Le stesse armonie delicate le ritroviamo nelle canzoni di Ricky Mantoan e le cover del Branco di canzoni come Big Wheels oppure Singing Cowboy firmate da Skip Battin e Kim Fowley inserite nel disco Brujo.

La formazione originale dei Kingfish era composta dal polistrumentista Matthew Kelly e dall’ex bassista dei New Riders Dave Torbert, i principali autori del gruppo. Con le impressionanti capacità strumentali di Robbie Hoddinott, Chris Herold e Mick Ward, la band divenne un gruppo popolare nei club della Bay Area. Dopo la morte di Mick Ward in un incidente d’auto, il gruppo continuò a lavorare come quartetto. Quando i Grateful Dead si ritirarono ufficialmente dalle scene alla fine del 1974, tutti i musicisti erano liberi di dedicarsi a progetti esterni, così Bob Weir, amico di lunga data di Matthew Kelly, iniziò a partecipare, unendosi ufficialmente al gruppo entro la fine dell’anno. L’arrivo di Weir ebbe due importanti impatti sulla band, che possono essere visti sia come una benedizione che come una maledizione. L’organizzazione dei Dead gestiva la propria etichetta, la Round Records, così i musicisti potevano essenzialmente produrre e pubblicare album senza interferenze da parte dell’industria discografica. Il lato positivo fu che i Kingfish ottennero un contratto con l’etichetta dei Dead, registrando un impressionante album di debutto, che aumentò notevolmente il loro profilo. Tuttavia, con grande sgomento dei membri della band, la grande maggioranza dei Deadheads percepì il gruppo come la backing band di Bob Weir. Comunque sia, il gruppo è diventato un gruppo molto popolare in tournée e ha offerto molte grandi performance.

Avrei voluto vivere quei giorni nella baia, se solo i miei genitori avessero pensato di emigrare a San Francisco negli anni Cinquanta. Quando avevo questo pensiero, Ricky mi diceva sorridendo che non ci saremmo incontrati se così fosse stato ma è anche vero che Skip arrivò in Italia pochi anni dopo con il desiderio d’incontrare Ricky quindi o in un modo o nell’altro i nostri destini si sarebbero incrociati.

Gloria Berloso
Gloria Berloso

marzo 16, 2024

The importance of words (songs of love, anti-capitalism and mental illness) è l’album di debutto di Solo

L’album è un mix di generi che mira alla sperimentazione con inaspettati cambi di registro che abbracciano art rock, psichedelia, grunge, punk, elettronica, pop e alternative rock.

Esce il 16 marzo 2024 “The importance of words (songs of love, anti-capitalism and mental illness)”, album d’esordio di SOLO, un mix di influenze in cui si bilanciano sperimentazione e orecchiabilità, tematiche sociali e testi più intimi e riflessivi.

«Le tematiche principali trattate in “The importance of words (songs of love, anti-capitalism and mental illness)” sono di sicuro di carattere politico-sociale, in particolare legate a quella che è la nostra società dei consumi, di un libero mercato incontrollato, di un capitalismo preponderante che influenza le nostre vite. E non di certo in maniera positiva. Influenzato dalla letture di Pier Paolo Pasolini, Naomi Klein, Noam Chomsky, Solo è sempre stato molto critico verso la società e di come questa ci influenzi, anche nel nostro profondo: le “mental illness” del titolo sono dovute in buona parte anche a come i costrutti sociali che ci impongono e ci auto-imponiamo ci influenzano. Quindi è tutto collegato. Anche il modo in cui proviamo amore, a chiudere il cerchio».

SOLO è un progetto che spazia fra i generi: la psichedelia lascia spazio al grunge, passando per l’indie pop, l’art rock, lo shoegaze, l’elettronica, marce bandistiche, musica concreta.

Il filo conduttore fra i brani è dato dalla sperimentazione (in particolare sui suoni, grazie ad un uso massivo dell’effettistica) e dall’insofferenza verso la società odierna, in cui viviamo.

SOLO ha pubblicato, ad ora, 5 singoli: “Stati emozionali” (brano in binaurale composto con soli oscillatori sinusoidali, generatori di rumore bianco e filtri, ispirato dall’elektronische musik di Karlheinz Stockhausen, è stato lanciato in anteprima su It’s Psychedelic, Baby e trasmesso all’interno di “Battiti”, su Radio 3 RAI), “Don’t shoot the piano player (it’s all in your head)” (brano che affonda le proprie radici nella psichedelia inglese della seconda metà degli anni ‘60, è stato lanciato in anteprima esclusiva su Prog UK), “Something (you don’t need)” (brano che miscela dream pop, indie pop, dance ed elettronica, lanciato in anteprima esclusiva su Post-Punk.com), il brano grunge/punk “Propaganda in my eyes, again (you’re erased)” (lanciato in anteprima esclusiva su The Spill Magazine) e “Summer fading (late love song)”, canzone in bilico fra dream pop, shoegaze e alternative rock (lanciata in anteprima esclusiva su La Stampa).

LE CANZONI

The importance of words
(songs of love, anti-capitalism and mental illness)
descritto da

Don’t shoot the piano player (it’s all in your head)

Ispirata tanto dai Rolling Stones di “Their Satanic Majesties Request” quanto dai Beatles di “Revolver” e i Pink Floyd di Syd Barrett, “Don’t shoot the piano player (it’s all in your head)” è un brano rock psichedelico che parla di allucinazioni e disturbi dissociativi. Pregna di suoni estranianti ispirati dal brano “Mangiafuoco” di Edoardo Bennato e da “Tomorrow Never Knows” dei Beatles, “Don’t shoot the piano player (it’s all in your head)” vanta un inciso di ebow “3D” in binaurale da poter maggiormente apprezzare tramite l’ascolto in cuffia.

“Don’t shoot the piano player (it’s all in your head)” su YouTube

Summer fading (late love song)

Canzone che si interroga su cosa sia l’amore, e su come questo sentimento venga percepito e cambi durante gli anni che passano, da bambini ad adolescenti ad adulti, “Summer fading (late love song)” è un brano cangiante che, ad ogni fase della vita narrata dal testo fa corrispondere un arrangiamento diverso, pur restando un brano dalla classica forma strofa-ritornello-strofa (un po’ come accade in “Strawberry fields forever” dei Beatles). Si passa da un dream pop iniziale (infanzia) allo shoegaze con l’ingresso di batteria e basso (adolescenza), fino all’alternative rock dell’interludio e della parte finale (età adulta). Le influenze sono tanto da ricercare nei Muse quanto nei Pink Floyd e nei Radiohead.

“Summer fading (late love song)” su YouTube

Hypocrisy (it’s all I see)

In bilico fra momenti di calma e altri di tensione, “Hypocrisy (it’s all I see)” è un brano che potremmo accomunare ad alcune produzioni grunge più legate alla psichedelia, con un cantato a tratti violento e aggressivo, altre più delicato, sempre malinconico. La tematica è rivolta a come spesso, soprattutto negli ultimi tempi, vi sia una banalizzazione nell’affrontare ogni tematica sensibile relativa all’ecologia, all’integrazione, puntando il dito sempre nella direzione sbagliata, sempre a favore dello status quo, mai a criticare un sistema economico per cui io consumatore non voglio rinunciare a ciò che la società dei consumi mi ha insegnato a desiderare, anche se ciò che ho imparato a desiderare è proprio il motivo per cui le cose che critico (cambiamento climatico, sfruttamento del lavoro) avvengono.

What’s the topic of the day? (forget the rest)
feat. Alidavid

Con l’avvento di internet pensavamo (ci illudevamo che) ci sarebbe stata una pluralità dell’informazione che avrebbe portato a una maggiore consapevolezza, da parte di tutti. Con l’avvento dei social ogni tipo di voce contro il sistema è stata ammutolita, soffocata dal marasma di messaggi che giornalmente ci vengono propinati, e a cui pare bisogni essere attivamente partecipi, altrimenti ci si sente tagliati fuori dal dibattito. E così nascono topic giornalieri, usa-e-getta come tutti i prodotti della società dei consumi, in modo che si parli di tutto e di niente, senza mai andare a fondo alle questioni ma passando subito al prossimo tema di dibattito, dimenticandosi del precedente senza averlo risolto o quanto meno affrontato, in un continuo presente. “What’s the topic of the day? (forget the rest)” è pensata come una finta pubblicità, dove viene venduto (torniamo alla società dei consumi) un prodotto chiamato Topic Of The Day. Il tono è quello della propaganda degli anni ‘40, uno spoken word (magistralmente interpretato da Alidavid) con tanto di sottofondo bandistico, una melodia accogliente e rassicurante, a tratti esaltativa, per invogliare all’acquisto del prodotto.

Propaganda in my eyes, again (you’re erased)

Ancora grunge. Ma questa volta di quello sporco, di estrazione punk. Il grunge dei Mudhoney e dei Nirvana di “Bleach”. E se “What’s the topic of the day? (forget the rest)” puntava il dito su come tutti sentiamo il bisogno compulsivo di dover dire la nostra rispetto a qualsiasi argomento, pur non avendolo analizzato a fondo, “Propaganda in my eyes, again (you’re erased)” parla proprio di come dall’alto veniamo influenzati in tutto quello che diciamo e pensiamo di pensare, anche quando gli argomenti trattati sono di natura nobile: il potere ha imparato che censurare non serve a nulla, ma è molto più efficace portare il dibattito a livelli banali, in modo che ci sia la percezione diffusa che le persone, i politici, persino gli imprenditori, si interessino di determinate tematiche, ma mantenendo un perpetuo status quo garantito dal fatto che non si affrontino mai, realmente, le problematiche di cui si dibatte; dal fatto che non si punti mai il dito verso le reali cause che portano alle storture presenti nella nostra società.

“Propaganda in my eyes, again (you’re erased)” su YouTube

Something (you don’t need)
feat. Nobody

Canzone che miscela indie pop e dream pop con accenni alla dance e all’elettronica stile Daft Punk, “Something (you don’t need)” si sviluppa come un discorso a due voci dove la mia si intreccia con quella di Nobody, a volte attuando un gioco di risposte, altre armonizzando, altre accavallandoci a coprirci l’un l’altra, “costringendo” l’ascoltatore a decidere chi “seguire”: “The importance of words”. “Something (you don’t need)” è un altro brano dove al centro dell’attenzione c’è la società dei consumi e di come questa ci influenza, in questo caso rispetto allo spasmodico bisogno di dover apparire sempre fisicamente perfetti, in un perpetuo gioco dove il sottinteso è quello di infondere nelle persone l’idea malata di non essere mai all’altezza delle aspettative, in modo da infondere insicurezza negli individui. Del resto, non c’è miglior consumatore di una persona insicura, che colma le proprie insicurezze acquistando ciò che la società gli suggerisce possa migliorare il proprio status; senza tralasciare il fatto che una persona insicura sarà, in generale, più facilmente soggiogabile e controllabile, a tutti i livelli.

“Something (you don’t need)” su YouTube

Emotional (e)states

Brano strumentale composto tramite l’utilizzo di oscillatori sinusoidali, generatori di rumore bianco e filtri, per sintesi additiva e sottrattiva, “Emotional (e)states” prende spunto dalla elektronische musik e, in particolare, da alcuni lavori di Karlheinz Stockhausen. Brano in binaurale, pregno di suoni che si spostano spazialmente, è consigliato l’ascolto in cuffia per un’esperienza 3D.

Look out (consumerism will consume you)

Forse il più ambizioso dell’album, “Look out (consumerism will consume you)” è un brano che potremmo definire art rock. Vicino ai Radiohead più chitarristici, è la canzone che dà il titolo all’album (tratto dal verso “I don’t understand now and no more the importance of words”). Siamo su territori art rock, dove la melodia incontra il rumorismo, sempre guardando al rock psichedelico. Il testo, pregno di nonsense, vuole comunicare la confusione che si può creare nella mente in una persona quando accerchiato dai troppi stimoli (negativi) con cui la società dei consumi ci bombarda perennemente, fino alla perdita di senso delle parole, che porta all’incomunicabilità.

It’s propaganda time! (rejoice!)

Altro brano in binaurale, dove i suoni “attorniano” vorticosamente l’ascoltatore, “It’s propaganda time! (rejoice!)” è un brano di musica concreta ispirato ai lavori di Pierre Schaeffer. Legato al brano precedente che lo anticipa, come fossero un unico corpo, insieme anche al successivo “In the end (nothing matters)”, “It’s propaganda time! (rejoice!)” riprende il medesimo concetto espresso in “Look out (consumerism will consume you)”, dell’individuo bombardato da troppi messaggi coercitivi. Il brano è composto da jingle pubblicitari di aziende poco etiche, riprodotti in reverse, in un crescendo rumoristico che conduce all’ultimo brano dell’album.

In the end (nothing matters)

“You get confused, I know, when they are bombing you with so much shit”: con questa frase, “In the end (nothing matters)” chiude questo trittico di canzoni dedicate a come la società ci influenza e ci confonde, puntando alla nostra depersonalizzazione, alla nostra alienazione. E chiude anche l’album, con un brano corto e ossessivo, che ci riporta al rock psichedelico anni ‘60 dell’inizio, con una chitarra acustica ridondante e una voce ultra-effettata, fra leslie, filtri, riverberi, delay, vibe e phaser. Alla fine, nulla è importante.

LIBRI DA LEGGERE

Youcanprint self-publishing
  • Autore: Gloria Berloso
febbraio 10, 2024

“La linea rossa” – Gloria Berloso

“La linea rossa” è il mio quinto libro pubblicato da Youcanprint Editore

Autore: Gloria Berloso

Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze

Biblioteca Nazionale “Sagarriga Visconti Volpi” di Bari

Dall’8 febbraio 2024 – distribuito qui e nelle librerie principali.

https://www.youcanprint.it/la-linea-rossa/b/f8bcdccf-d3a5-531b-9cc2-6984f0b8c426

Una narrazione avvincente che scava nella mente il ricordo e pone in primo piano il dolore della perdita, l’amore per la vita ed il desiderio di pace per tutti i popoli.

Un viaggio attraverso quello che fu un tempo notevole nel mondo della musica, vissuto dentro una storia d’amore con un musicista.

C’è un passaggio ad est
che non conosco
La linea rossa all’orizzonte
è nascosta nel fumo
Ci sono cuori ad est
che non battono più
Il sangue rosso sull’asfalto
è rimasto nella pioggia

Biografia e storia

Sono nata a Gorizia ed ho vissuto negli ultimi anni a Borgomasino, in Piemonte.

Per vera e pura passione organizzavo concerti fin dagli anni Ottanta in Friuli, che mi hanno permesso d’incontrare Ricky Mantoan nel 1998, iniziando una significativa collaborazione artistica per l’impegno dedicato alla musica in ogni sua espressione.

C’è un bel saggio recente di John Maxwell Coetzee, lo scrittore sudafricano Premio Nobel per la letteratura nel 2003, dal titolo Lavori di scavo in cui dice: “Chissà quali verità triestine Svevo non ci ha rivelato nelle sue pagine italiane”, cioè Svevo che con gli altri parlava in dialetto, per esempio con James Joyce parlava in triestino. Quindi Coetzee si chiede quali verità, quale eccedenza di senso c’è nella scrittura di Svevo che non è trapelata proprio perché la sua scrittura è abitata da questa estraneità. Il che non significa che Svevo non sia un grande scrittore, ma proprio il contrario è forse questa la sua grandezza. Quindi scrivere a Gorizia o a Trieste ieri come oggi, significa abitare questa propria costitutiva alterità. Se la lingua è la mia casa, è sentirsi vivere come straniero a casa propria. All’epoca di Carlo Michelstaedter questo aspetto del sentirsi vivere come straniero a casa propria doveva essere fervido di stimoli per l’immaginario perché l’Europa e la coscienza europeista dell’epoca lo permetteva, era autenticamente multiculturale. Oggi è diverso, tutta la Venezia Giulia per dirne una, è colonizzata dagli anglismi. Noi siamo gli stranieri più veri, quelli senza un luogo identificabile con certezza. Questo aspetto storico identificativo l’ho ereditato e lo sento addosso da sempre. Il nonno materno è nato Lantieri a Begliano, ha studiato a Vienna, parlava correttamente il tedesco e il russo, oltre l’italiano, il goriziano e il friulano. A casa con mia nonna Caterina e i cinque figli parlavano il friulano pur essendo la nonna probabilmente di origini slave essendo nata Devetag. Il loro atto di matrimonio è registrato nell’archivio vescovile di San Rocco a Gorizia. Il nonno paterno Silvio è nato Berloso a Cittadella in Veneto, la sua mamma Carolina (bisnonna mia) era una Allegro di Correggio (discendente – raccontavano – del noto pittore). La nonna paterna Silvia è nata De Petris a Veglia (Krk). Hanno vissuto entrambi e lavorato prima della guerra, a Pola. Tra loro parlavano il triestino o goriziano (forse l’istriano). Mio padre ha frequentato il collegio a Pola, lo stesso di Sergio Endrigo. Mio nonno dopo la guerra visse a Trieste, mia nonna e i due figli a Gorizia. A casa parlavano il goriziano. Io e mio fratello abbiamo sempre parlato in goriziano con i nostri genitori mentre mia madre, con i suoi fratelli, ha sempre parlato in friulano.