La cultura è il collante invisibile che unisce individui e comunità, un’eredità che non si limita a tramandare tradizioni, ma funge da guida per la nostra evoluzione sociale e umana. Il patrimonio immateriale, fatto di memorie, racconti e gesti, è una risorsa vitale, un ecosistema di significati che fluttua sul nostro presente e plasma il nostro futuro. Quelle tracce, apparentemente eteree, sono il fondamento solido su cui si poggia la carne e il sangue di un paese, il tessuto che avvolge la sua storia, trasformando il ricordo in materia viva.
Non si possono ignorare le persone che hanno reso possibile tutto ciò: i lavoratori, i visionari, i pionieri che con il loro impegno e il loro coraggio hanno gettato le basi dello sviluppo, sognando spazi più aperti e libertà più grandi. Con il loro lavoro, non solo hanno costruito ciò che vediamo, ma hanno infuso in ogni pietra, in ogni struttura, l’eco di una speranza e di un sogno che risuonano ancora oggi.
Guardare al passato non significa idealizzarlo, né pensare che fosse necessariamente migliore. Significa comprenderlo, analizzarlo, estrapolare da esso ciò che è deperibile e ciò che è durevole. È dalla conoscenza del passato che possiamo individuare ciò che resiste alla prova del tempo, ciò che prevale come testimonianza della nostra umanità.
Essere una cultura peninsulare e di confine ci ha donato una prospettiva unica: lo sguardo rivolto verso il mare, simbolo di opportunità e di apertura. Il mare, protagonista silenzioso della nostra storia, è stato via di commercio, luogo di migrazione, e scenario di infinite relazioni culturali. Da esso sono arrivati stimoli e influenze, e verso di esso abbiamo inviato idee, tradizioni, e pezzi della nostra identità. È un legame che non si spezza, ma che continua a riflettere la nostra capacità di interagire con il mondo, accogliendo il nuovo senza perdere il nostro senso di appartenenza.

Il valore della memoria e il modo in cui essa viene tramandata. L’oralità, pur essendo un pilastro della cultura popolare, ha i suoi limiti, perché il tempo tende a sbiadire i dettagli, a reinterpretare i racconti e a lasciare parti di verità nell’ombra. La scrittura, al contrario, ha la straordinaria capacità di fissare i pensieri e le esperienze in modo duraturo, offrendo alle generazioni future una finestra nitida sul passato.
Immagina quanti dettagli preziosi delle avventure di quegli uomini, le lotte, le conquiste, le emozioni vissute, avremmo potuto comprendere meglio se solo avessero trovato nella scrittura un mezzo per raccontarsi. È un peccato, ma è anche una lezione che ci invita a non sottovalutare l’importanza di documentare il nostro tempo e le nostre storie. Oggi, più che mai, abbiamo gli strumenti per farlo, per lasciare una traccia che resista alle insidie dell’oblio.
Al contempo, l’oralità mantiene un fascino unico: è viva, adattabile, un’espressione immediata e spontanea che rispecchia la relazione diretta tra chi racconta e chi ascolta. Forse il suo limite, quello di essere relegata tra la cultura popolare e quella dominante, ci ricorda che ogni forma di memoria è preziosa e che il passato non deve solo essere studiato, ma anche vissuto e sentito, attraverso i suoi racconti e le sue voci.
Una riflessione che ci invita a guardare il passato con ancora più attenzione e a tramandarlo con ogni mezzo possibile.
Il suono ipnotico della ghironda, con i suoi toni caldi e vibranti, aveva un potere unico nel catturare l’attenzione delle folle, trasformando le piazze del Cinquecento in teatri a cielo aperto. Lungi dall’essere semplicemente uno strumento decaduto, la ghironda rappresentava un’arte itinerante, un’eredità musicale capace di superare i confini delle corti e raggiungere il cuore del popolo.
Quei suonatori erano i narratori del loro tempo, capaci di intrecciare la tradizione con l’innovazione. Con il loro talento, restituivano dignità a uno strumento che aveva condiviso l’intimità delle corti trobadoriche e le mani dei nobili, ma che trovava nuova vita tra la gente comune, portando musica e storie ovunque andassero.
Era un’arte senza tempo, e in fondo, forse, il pubblico delle piazze cercava proprio questo: una connessione autentica e universale, qualcosa che nemmeno un predicatore poteva offrire con le sue parole. La ghironda, con le sue melodie circolari, diveniva simbolo di continuità, di appartenenza, e di una tradizione che “pur trasformandosi” rimaneva viva.
La “cultura musicale” non è solo un insieme di suoni, ma è intrinsecamente legata all’identità di una comunità. Essa riflette le esperienze condivise, i valori, le tradizioni e le dinamiche sociali di un gruppo umano, manifestandosi attraverso forme e comportamenti musicali che diventano segni distintivi di quella società.
Ogni cultura musicale si sviluppa in base alle relazioni sia tra le persone che con l’ambiente circostante e alle funzioni che la musica assume, che possono spaziare dall’intrattenimento alla ritualità, dall’espressione personale al rafforzamento dell’identità collettiva. La musica diventa quindi un linguaggio simbolico che veicola significati profondi, legati al contesto socioculturale in cui nasce e si evolve.
Attraverso questi tratti distintivi, una cultura musicale permette a chi vi appartiene di riconoscersi, ma offre anche agli “altri” una finestra su mondi diversi, permettendo lo scambio e l’arricchimento reciproco. È un continuo dialogo tra tradizione e innovazione, radici locali e influenze globali, che mantiene viva e vibrante l’espressione musicale di una comunità.
Essere goriziana significa appartenere a una terra di confine, ricca di storia e di una cultura complessa, stratificata da eventi drammatici e dall’incontro di diverse identità. È bellissimo vedere quanto valore hanno le origini, non solo come patrimonio ereditato, ma come forza che mi permette di interpretare il presente con autenticità e profondità.
La storia dei miei nonni paterni e materni, che hanno attraversato due Guerre Mondiali, è una testimonianza preziosa, un filo che collega le generazioni e che mi consente di comprendere meglio chi sono oggi. Conoscere il loro percorso non è solo un atto di memoria, ma anche una chiave per interpretare il mondo attuale, per capire le dinamiche della mia comunità e il mio ruolo all’interno di essa.
La mia riflessione sulla “mia” libertà d’interpretazione è altrettanto significativa: ci ricorda che la storia, pur condivisa, è anche una dimensione personale, un prisma attraverso il quale filtrare ciò che ci tocca più da vicino. È un atto di coraggio esprimere quello che ho dentro, e il fatto che io lo faccio rende onore non solo alle mie radici, ma anche al desiderio di costruire un legame autentico con la comunità e la cultura che rappresento.
Una delle grandi sfide del nostro tempo è il rapporto tra il retaggio delle nazioni e l’inevitabile cammino verso una maggiore interconnessione globale. La globalizzazione va ben oltre l’economia: è una trasformazione profonda che tocca tutti gli aspetti della nostra esistenza, dalla politica alle culture, dall’etica alla spiritualità. È un fenomeno che, mentre ci avvicina gli uni agli altri, ci costringe anche a fare i conti con la nostra identità collettiva e individuale.
Siamo in una fase di transizione in cui coesistono tendenze apparentemente contraddittorie: da un lato, il bisogno di mantenere e difendere le specificità culturali e nazionali, dall’altro, la consapevolezza che il nostro futuro è intrinsecamente legato a quello dell’intera umanità. Questa tensione può sembrare un retaggio del passato, ma è anche una delle chiavi per costruire un mondo in cui le differenze possano convivere armoniosamente.
La globalizzazione, in quanto processo politico e culturale, offre nuove opportunità per il dialogo e la cooperazione, ma richiede anche un profondo ripensamento delle nostre strutture sociali e delle nostre priorità. È un passo verso una consapevolezza planetaria, un cammino che ci sfida a trovare un equilibrio tra ciò che siamo stati e ciò che vogliamo diventare.
I miei pensieri riflettono una visione profonda e universale, un richiamo all’unità e alla responsabilità condivisa. Il pianeta Terra non è solo il luogo fisico che ospita tutti i popoli, ma è anche il simbolo di una comunità globale in cui le differenze arricchiscono anziché dividere. Il riconoscimento che formiamo un’unica specie, parte integrante della grande comunità di vita, è un passo essenziale verso la costruzione di una società più equa e inclusiva.
La sfida di accogliere le diversità senza trasformarle in disuguaglianze è cruciale per il nostro progresso umano. Rispettando la storia e la cultura delle nazioni e dei gruppi etnici, possiamo celebrare i diversi modi di essere umani senza perdere di vista il nostro destino comune. Ogni cultura e tradizione aggiunge un tassello unico al mosaico globale, un contributo prezioso alla grande Casa Comune che siamo chiamati a costruire.
La consapevolezza che Terra e Umanità condividono un destino comune è il cuore di questa nuova fase della storia, un invito a superare barriere e confini, a collaborare per affrontare le sfide ambientali, sociali e culturali che ci riguardano tutti. È un processo che richiede fatica e impegno, ma che porta con sé la promessa di un mondo più armonioso e sostenibile.
Le mie parole sono un richiamo urgente alla consapevolezza e alla responsabilità collettiva. La pace è un bene prezioso, forse il più desiderato dall’umanità, ma anche il più fragile, soprattutto in un’epoca in cui non solo i conflitti tra le nazioni dividono il mondo, ma anche un conflitto più ampio e devastante viene portato avanti contro il nostro stesso pianeta.
La Terra, la nostra Casa Comune, sta manifestando il suo disagio attraverso fenomeni estremi: il riscaldamento globale, la perdita di biodiversità, l’esaurimento delle risorse naturali. Questi segnali non sono altro che un grido d’allarme, un avvertimento che non possiamo più ignorare. Ogni attacco contro la Terra è un attacco contro la vita stessa, e ogni ferita inflitta al pianeta è una ferita inflitta a noi stessi e alle generazioni future.
Trovare la pace significa non solo fermare le guerre tra popoli, ma anche ristabilire un equilibrio armonioso con la nostra Madre Terra. È un compito che richiede uno sforzo congiunto a livello globale, un cambiamento radicale nei nostri stili di vita, nel nostro rapporto con la natura e nel modo in cui concepiamo il progresso.
Se vogliamo costruire un mondo in cui la pace sia duratura, dobbiamo riconoscere che il destino dell’umanità e quello del pianeta sono intrecciati. Ogni piccolo gesto di rispetto verso la Terra e verso gli altri esseri viventi è un passo verso quel futuro di pace che sogniamo. La sfida è grande, ma la speranza di costruire un mondo migliore è alla nostra portata.
La cittadinanza mondiale non è un’utopia, ma una risposta concreta alle sfide del nostro tempo. Una pace duratura non può essere costruita su compromessi temporanei o su tregue fragili, ma richiede un impegno profondo verso l’ospitalità e il rispetto dei diritti di ogni individuo.
La cittadinanza mondiale implica il riconoscimento che siamo tutti parte di un’unica comunità globale, dove le azioni di ciascuno influenzano il destino collettivo. È un invito a superare i confini geografici e culturali, a vedere nell’altro non uno straniero, ma un compagno di viaggio in questo mondo condiviso.
Vivere l’ospitalità significa accogliere con apertura e rispetto, riconoscendo la dignità e il valore di ogni persona. Rispettare i diritti, invece, è il fondamento di una società giusta, dove la pace non è solo assenza di conflitto, ma presenza di equità, solidarietà e comprensione reciproca.
Se vogliamo davvero costruire un futuro di pace, dobbiamo abbracciare questa visione globale, trasformando le nostre relazioni sociali in un terreno fertile per la cooperazione e l’armonia. È una sfida ambiziosa, ma anche una delle più nobili che possiamo intraprendere.
La riflessione richiama principi profondi che trovano le loro radici nella filosofia di Kant e nella visione di un mondo che aspira alla pace universale. I diritti universali, come “la mela dell’occhio di Dio,” rappresentano il fondamento etico di una comunità globale capace di superare le divisioni e porre fine al ciclo perpetuo di conflitti. Il rispetto per questi diritti, intrinseco al valore della dignità umana, è essenziale per la costruzione di una società basata sulla giustizia e sulla solidarietà.
Lo stato di diritto e la promozione della cittadinanza planetaria, attraverso l’ospitalità, non sono solo ideali astratti, ma strumenti concreti per creare una cultura globale dei diritti. Sottolineo che, questa cultura, è il motore che può trasformare il nostro mondo, facendo emergere una “comunità dei popoli” in cui ogni individuo si senta connesso agli altri, indipendentemente dal luogo in cui vive.
La visione kantiana che ho richiamato, secondo cui la violazione di un diritto in un luogo può essere avvertita ovunque, è incredibilmente attuale. Essa ci ricorda che viviamo in un mondo interconnesso, dove le ingiustizie, anche se lontane, hanno ripercussioni globali. Solo attraverso una consapevolezza diffusa e condivisa possiamo aspirare a un futuro in cui i diritti universali siano realmente rispettati, garantendo la pace e la sicurezza per tutti.
Esiste una tensione storica e filosofica che continua a influenzare il nostro presente. La visione di Hobbes, con la sua concezione della pace come semplice assenza di guerra e come equilibrio di potere, ha effettivamente plasmato per secoli il pensiero politico e le relazioni internazionali. Questo paradigma, basato sulla forza e sull’intimidazione, ha spesso portato a una pace fragile, più simile a una tregua che a una vera armonia.
Il richiamo al “Leviatano” hobbesiano, simbolo di uno Stato che esercita un potere assoluto per mantenere l’ordine, è particolarmente significativo. Quando questo potere si manifesta attraverso il dominio e la coercizione, come nel caso del terrorismo di Stato, diventa un ostacolo insormontabile per qualsiasi strategia di pace autentica. La logica del più forte, che si impone sugli altri, non solo perpetua i conflitti, ma mina anche le fondamenta stesse della cooperazione e della solidarietà globale.
Per costruire un futuro di pace e umanità, è necessario superare questa logica di dominio e abbracciare un paradigma basato sul rispetto reciproco, sui diritti universali e sulla cittadinanza globale. Solo così possiamo sperare di trasformare le relazioni internazionali in un terreno fertile per la pace duratura.
Ho dipinto un quadro che incarna l’urgenza e la complessità del nostro tempo. Il pericolo che le armi nucleari, per errore o intenzione, possano portare all’estinzione della nostra specie non è soltanto uno scenario distopico, ma una realtà che richiede una riflessione profonda e collettiva. A ciò si aggiunge il rischio che l’Intelligenza Artificiale Autonoma, senza adeguati controlli etici e normativi, possa divenire uno strumento potenzialmente pericoloso.
La domanda che pongo è cruciale: avremo la saggezza e il coraggio per cambiare? Cambiare significa affrontare un sistema storico che per secoli ha dato priorità all’accumulo di beni materiali, ignorando spesso il valore intrinseco della vita. È un cambiamento che richiede una trasformazione non solo nelle strutture politiche ed economiche, ma anche nei nostri valori, nei nostri comportamenti e nella nostra visione del futuro.
La chiave è la consapevolezza. Più siamo in grado di riconoscere che l’interconnessione tra gli esseri umani, il pianeta e le tecnologie che sviluppiamo è la base per la nostra sopravvivenza, più possibilità avremo di invertire questa tendenza distruttiva. Serve una responsabilità condivisa che trascenda gli interessi personali e nazionali, un impegno a ripensare i nostri modelli di sviluppo e le nostre priorità.
In definitiva, sì, dipenderà da noi: dalla nostra capacità di unirci, di ascoltare le voci di chi promuove la pace e di agire con saggezza per costruire un futuro più sicuro e sostenibile. E nonostante le difficoltà, possiamo ancora scegliere di investire nella vita, nell’umanità e in un sistema che metta al centro ciò che veramente conta.
Il potere della musica e delle parole di trascendere il tempo.
In un’epoca in cui i valori fondamentali come l’amore, la pace e la convivenza pacifica sembrano vacillare, le canzoni che hanno attraversato le generazioni assumono un significato ancora più grande. Esse rappresentano un filo che ci lega a momenti di speranza, lotta e resilienza, e, nonostante i cambiamenti nel contesto sociale, continuano a parlarci con una forza universale.
La resistenza di queste canzoni nel tempo potrebbe essere spiegata dal fatto che esse incarnano sentimenti ed esperienze umane universali. Sebbene le circostanze storiche in cui sono nate possano essere specifiche, il loro messaggio—che spesso tocca corde profonde dell’animo umano, come il desiderio di libertà, la ricerca della giustizia o la celebrazione dell’amore—rimane rilevante. In un mondo in costante cambiamento, queste canzoni diventano un rifugio, un promemoria che i valori fondamentali dell’umanità possono ancora risuonare.
Forse ciò che le rende immortali è proprio la loro capacità di adattarsi ai tempi, offrendo a ogni generazione una lente attraverso cui rileggere e reinterpretare il loro significato. Nonostante le difficoltà del presente, esse ci ricordano che, anche in mezzo al caos, c’è spazio per bellezza, empatia e speranza.
Mi viene in mente una canzone di Neil Young, Down By The River, che racconta di un omicidio per amore. Il grave fenomeno culturale in Italia che oggi viene classificato femminicidio per l’altissimo numero di donne uccise dai loro compagni di vita, è realtà. Forse, molti di questi assassini non hanno mai ascoltato una canzone ma solo suoni disturbati e parole senza senso, perché uccidere per amore non ha alcun significato, perché per un omicida è così difficile restare solo, prima e dopo. Le mie parole sono un potente riflesso della complessità e delle contraddizioni del nostro tempo. La canzone di Neil Young, “Down By The River,” con il suo tema oscuro e controverso, sembra quasi un simbolo di come l’arte possa esplorare le profondità dell’animo umano, anche quelle più inquietanti. Tuttavia, il fenomeno del femminicidio in Italia è una realtà tragica che va ben oltre qualsiasi narrazione artistica: è un problema sociale che richiede una riflessione seria e un’azione concreta.
L’idea che molti di questi assassini non abbiano mai ascoltato una vera canzone, ma solo suoni disturbati e parole vuote, è una metafora potente. La musica, con la sua capacità di toccare le corde più profonde dell’anima, potrebbe essere un antidoto alla disconnessione emotiva e alla violenza. Ma uccidere per amore non ha alcun significato, perché l’amore autentico non può mai essere fonte di distruzione.
In un mondo che sembra impazzito, dove guerre, razzismo e paranoie dominano, il “diverso per scelta” emerge come una figura di speranza. Chi sceglie di essere diverso, di resistere alla follia collettiva, di creare arte che sia bella e profonda, rappresenta una luce in mezzo al caos. È attraverso queste voci che possiamo trovare un senso, una via per riconnetterci con ciò che è umano e autentico. Un invito a non trattenere le emozioni, a lasciarle fluire e raccontare le storie che portano con sé. È come se il cuore fosse il custode di una memoria profonda, capace di dare voce a ciò che spesso rimane in silenzio.
Un’immagine intensa e malinconica, quasi come una finestra aperta su fragilità e incomprensioni che ci rendono umani. Una canzone diventa metafora potente del caos che attraversa le nostre vite, scompigliando le nostre certezze e lasciandoci a riflettere su ciò che siamo, su ciò che abbiamo condiviso e su ciò che non potremo mai comprendere pienamente l’uno dell’altro. La struggente consapevolezza delle differenze tra due persone, dei limiti nel cogliere la profondità del dolore o la santità dell’amore di qualcun altro, è splendidamente umana. E quel riconoscere il miracolo di riuscire ancora a camminare, a vivere, a nutrirsi, nonostante le nostre imperfezioni e il disordine che ci circonda, ci riporta alla forza interiore che spesso ignoriamo.
25 APRILE
Forse non farò
cose importanti,
ma la storia
è fatta di piccoli gesti anonimi,
forse domani morirò,
magari prima
di quel tedesco,
ma tutte le cose che farò
prima di morire
e la mia morte stessa
saranno pezzetti di storia,
e tutti i pensieri
che sto facendo adesso
influiscono
sulla mia storia di domani,
sulla storia di domani
del genere umano.
Italo Calvino
Testi di Gloria Berloso



















